Friday, Apr 19th

Ultimo aggiornamento10:41:57 AM GMT

Firenze, il diospero e la sincerità dell’olio
Errore
  • Errore nel caricamento dei dati feed.

Firenze, il diospero e la sincerità dell’olio

Lo sguardo stralunato del fruttivendolo alla mia richiesta mi fece capire che non ero più a casa. Provai ad insistere alzando il tono della voce sperando in una lieve sordità del mio interlocutore. Stavolta quasi seccato mi chiese cosa fossero i diosperi che avevo appena ordinato. Provai a descriverli: frutto sferico, di colore arancione, polpa morbida e molto dolce, prodotto autunnale. Buio totale.


La fortuna fu che li vidi esposti e, come facciamo solitamente noi italiani quando andiamo a soggiornare all’estero e vogliamo fare degli acquisti, li indicai con il dito indice. Finalmente la luce. Mi diede un’occhiata come dire: “Lo poteva dire prima. Ma come parla...?” Gli spiegai che venivo da fuori ed ebbi anche la malaugurata idea di chiedergli come chiamassero loro quei dolcissimi frutti. La risposta fu agghiacciante. Scoprire che un generoso frutto della terra donato dal cielo venisse chiamato con quello che per noi è il presente indicativo di un verbo non propriamente nobile, mi fece cascare le braccia. Ma dove sono finito? “Scusi, una curiosità: e quando invece una persona si reca intimamente ad effettuare operazioni fisiologiche come dite?” Praticamente allo stesso modo fu la risposta. Mamma mia! Presi con un certo ribrezzo il sacchetto contenente quei frutti che in quel momento non mi sembravano più tanto generosi e uscii mesto dal negozio.

Il macellaio di lì a pochi passi non fece altro che buttare benzina sul fuoco e, al tempo stesso,  acuire ulteriormente la mia disperazione. Entrando nel fornitissimo negozio e deciso a riconquistarmi almeno a tavola un pezzo della mia Firenze lontana, chiesi di avere due belle bistecche. Mi rassicurò sfoderando lo stesso sguardo deciso che hanno gli studenti alla domanda del professore quando sono certi di sapere la risposta. Prese un pezzo di carne, affilò il coltello da taglio e iniziò a fare la stessa operazione che fa il falegname quando passa la pialla su un pezzo di legno. Osservavo allibito in silenzio. Dopo che finalmente riuscì in quella difficilissima opera da cesellatore, ma evidentemente non sufficientemente soddisfatto della sottilissima fettina che aveva generato, prese deciso il batticarne e, con una violenza ed un accanimento ingiustificati, terminò il lavoro battendo la carne e facendola così diventare grande come un lenzuolo di un letto matrimoniale. Riuscendo faticosamente a sconfiggere la forza di gravità, le due trasparenti fettine furono adagiate sulla bilancia. “Poi?” - chiese. Non avevo la forza di parlare. Furono i miei diosperi che tenevo d’occhio dal sacchetto a darmi la spinta della reazione. “Scusi, le avevo chiesto delle bistecche, non delle braciole”. Il silenzio che seguì mi fece tragicamente scoprire che quelle che noi chiamiamo bistecche, qui vengono chiamate braciole e quelle che noi chiamiamo braciole qui le chiamano bistecche. Signore aiutami! Che fare quindi? Farsi capire senza problemi adeguandosi ai termini locali, oppure azzardare l’impossibile cioè tentare di abituare i miei nuovi concittadini all’uso di vocaboli più nobili e sicuramente più consoni alla lingua italiana?

Per noi fiorentini lontani dalla nostra amata terra prevale invariabilmente sempre la seconda opzione. L’autentico spirito fiorentino riverbera nell’utilizzo corretto della sintassi e dei vocaboli appropriati della lingua italiana il suo punto più alto e più orgogliosamente polemico. Non siamo noi che siamo fuori dalla città di Firenze: sono tutti gli altri che non sono dentro, quindi che si adeguino. Questo semplice ma fondamentale teorema, peraltro facilmente dimostrabile in termini dialettici oltre che sostanziali, conduce a ostinarci di voler insegnare a tutto il mondo, essendone Noi gli antichi padri, come si parla in maniera corretta la lingua italiana. L’effetto quindi successivo è la totale inversione della situazione: noi fiorentini fuori da Firenze facciamo finta - in questo caso fingiamo in maniera autentica - di non capire eventuali vocaboli locali che, anche solo per rispetto verso chi ci ospita, dovremmo sforzarci di apprendere. Ecco compiuto il completo ribaltamento dello status quo: sono i nostri interlocutori che si devono adeguare al nostro linguaggio, almeno nel momento in cui parlano con Noi, e non viceversa. Polemizzare per lo strazio che viene compiuto quotidianamente ai danni della nostra lingua, è soltanto uno dei molteplici aspetti che il fiorentino lontano dalla sue mura desidera mettere in evidenza per esibire orgogliosamente la propria superiorità. Essere lontani da Firenze è come essere lontani da casa: è come quando abbiamo fatto il militare e non si vedeva l’ora dell’agognata licenza per tornare sì ad abbracciare i propri cari, ma soprattutto tornare a respirare i sapori di casa nostra. E’ come essere in vacanza: sì posto molto bello, pieno relax, ottima cucina…però vuoi mettere come si sta a casa? Prima o poi la nostalgia domestica ci assale sempre.

Quando ero piccolo e osservavo le enormi ante della Porta  San Miniato, pensavo che quelle, se opportunamente chiuse, sarebbero diventate un baluardo inespugnabile per chiunque volesse farci del male. Chiedevo spesso a mia nonna se quel solidissimo portone la sera venisse chiuso, esattamente come facciamo a casa nostra quando andiamo a dormire per proteggere la nostra vulnerabilità sino al mattino successivo. La rassicurante risposta affermativa di chi aveva colto in quella domanda un infantile desiderio di ulteriore sicurezza e che soltanto l’intuito di una madre poteva cogliere, mi faceva sentire invincibile. Le alte mura lungo Via dei Bastioni da una parte e verso Forte Belvedere dall’altra facevano il resto. Cosa ci poteva succedere a Noi che stavamo dentro in San Niccolò? Neanche i Saraceni avrebbero potuto spaventarci. Quelle antiche ma solide mura, quel forte che vigilava dall’alto, silenzioso, alle nostre spalle, quel fiume che ci divideva dal cuore della città ma che con quattro passi svelti ci immergeva di colpo in un’altra epoca grandiosa come le altezze di Palazzo Strozzi, hanno da sempre rappresentato la mia casa e il mio rifugio.

La mia area domestica non terminava sul pianerottolo in fondo ad un corridoio che a me pareva lunghissimo ma che in realtà era poco più che un disimpegno: le importanti scale dell’antico palazzo, l’alto portone dotato di batacchi che aprivo con fatica, il tratto di strada che mi portava dai cosìdetti “Fondacci” nel quale abitavo al “Borgo”  e  alla parrocchia, la minuscola edicola di fianco, il negozio di alimentari di fronte, la cartoleria e la latteria che faceva anche un buonissimo gelato in fondo a Via San Miniato. Quella era la tutta mia casa. La vita quotidiana, fatta di rapporti semplici tra gli abitanti del quartiere, era popolata da personaggi sanguigni come il Parroco. Il Suo modo di fare brusco che noi bambini scambiavamo per severità, era in realtà l’effetto della Sua profonda umanità. La Sua comunità, raccolta in quelle quattro strade, era tutta nata e cresciuta al riparo da quelle possenti mura: era naturale darsi del tu anche tra adulti, era naturale che il pizzicagnolo, vedendoti arrivare con dei soldini in mano, ti chiedesse cosa ti avesse detto di comperare la mamma e trovava ovvio regalarti una scaglia di formaggio o una fetta di salame appena tagliato. Poi la latteria: la scusa di dover acquistare il latte celava il forte desiderio di andare in quel piccolo locale che alle pareti piastrellate aveva attaccate delle foto di sportivi esultanti per una vittoria importante appena raggiunta. Avevano la maglia viola ed un giglio rosso sul petto: Ferrante, De Sisti, Brizi, Amarildo, Superchi, Merlo e via via tutti gli altri anche tutti insieme chi in piedi, chi accosciato nella classica posa da fotografia prima di un incontro. Quella parete bianca ma colorata di viola e di sorrisi era come se fosse la mia cameretta. Osservavo, chiedevo, e capivo che essendo dentro le mie mura, quei sorrisi erano i miei sorrisi e quel distintivo colore viola diverso da tutti gli altri era il mio colore.

Quel colore viola mi ha accompagnato dovunque sia andato. A differenza di tutto il resto della mia casa, la Fiorentina è stata la mia insostituibile compagna della vita e il mio inespugnabile portone esattamente come quello delle mura di Via San Miniato. Ricordo perfettamente alle scuole elementari milanesi - siamo nei primi anni settanta - quando tutti i compagni di classe mi chiedessero perché tifassi per la Fiorentina. Rispondevo sempre, esibendo sin da piccolo ciò che avevo ereditato dallo spirito fiorentino, con un’altra domanda: “Tu invece per quale squadra tifi?” Alla risposta, quasi sempre di una squadra con la maglia a strisce che in questa sede non nomino perché, come dice mia figlia Camilla, le parolacce non si devono dire, incalzavo con la seconda domanda: “E dove sei nato? Da dove proviene la tua famiglia?” Qui entravo direttamente in contatto con la varietà della nostra Italia: si andava dalla Sicilia, alla Calabria, alla Puglia alla Campania e via risalendo verso le Alpi. A quel punto non riuscivo nemmeno ad arrivare alla terza ed ultima domanda perfettamente identica a quella che era stata posta in origine a me. Dovendo il mio compagno di classe ammettere che si trattava di una scelta fatta in base a vittorie o potere, preferiva lasciar stare e passare magari a giocare con le figurine dei calciatori che tutti avevamo in tasca e che spesso l’autoritaria maestra dell’epoca ci sequestrava per punirci delle nostre disattenzioni.

Giunse anche il giorno nel quale la mia Firenze, con delle immacolate maglie bianche della Fiorentina, venne a trovarmi nell’enorme stadio di Milano. Ricordo quella giornata nei minimi dettagli per la difesa che dovetti operare nei confronti dei tanti tifosi interisti dai quali ero assediato. L’esperienza acquisita a scuola mi servì enormemente per districarmi tra battute sulla mia squadra, ironie sul blasone e domande trabocchetto. È come aver avuto il battesimo del fuoco. Da lì in poi ho girato gli stadi italiani ed europei sempre alla ricerca della mia Firenze e di quel suo magico colore.

Un altro degli aspetti caratterizzanti di noi fiorentini è la schietta sincerità. La nostra storia ci ha insegnato ad essere realisti e ad affrontare in maniera diretta ogni situazione: l’effetto conseguente di un approccio di questo tipo si riflette nel fornire, anche se non esplicitamente richiesto, il nostro sincero parere su una certa situazione. Alla consueta festa tra ragazzi, ad un’età quindi nella quale i filtri di “convenienza” o “quieto vivere” non sono ancora pienamente attivati, la solita ragazza con fianchi larghi, cosce da rugbysta e petto volitivo si presenta fasciata in indumenti di almeno due taglie inferiori a ciò che madre natura ha generosamente fornito, scioccando tutti gli astanti. “Tesoro, sei splendida!” urlacchiano le sue false amiche sapendo di mentire spudoratamente. “Non trovate che mi vadano un po’ stretti questi vestiti?” - chiede tremebonda come un omicida in attesa di giudizio. “Macchè! Sei uno schianto!” rincarano la dose le vipere. Per il vero fiorentino tutto ciò è inaccettabile. Non lo accetta se gioca in casa, figurarsi se questo può avvenire in trasferta. Nessuno ha richiesto il suo parere, nessuno si sogna neppure di chiedergli di fornire un giudizio, eppure…”A essere sinceri dolcezza, già sei soprappeso: se poi ti confezioni in quella maniera, sembri una salciccia strizzata nel suo spaghino…”. Perché? Quale è il motivo che mi spinse a pronunciare quella frase che vide , ovviamente, ampi consensi e risate dei miei coetanei di sesso maschile (ma che, non essendo fiorentini, non avrebbero mai pronunciato anche se ampiamente pensata) e le reprimende di tutto il sesso femminile in realtà felice che ci fosse qualcuna più inguaiata di loro?
E’ solo la sincerità.

La medesima sincerità e il realismo che emerge in maniera chiara anche nei sapori della nostra cucina: forti, decisi, senza sconfinamenti in gusti che dietro una presentazione di apparente raffinatezza, in realtà celano l’assoluta assenza di personalità. Esattamente come il nostro essere fiorentini. Un esempio lampante è dato dal diverso utilizzo dell’olio piuttosto che del burro. Cresciuto in una sana famiglia di fiorentini, sono stato da sempre abituato a vedere mia mamma che utilizzava l’olio crudo per condire qualunque pietanza e, allo stesso modo utilizzarlo, ad esempio, anche per cuocere le braciole. Una volta sposato e diventato padre, mi sono posto il problema di dover preparare del cibo gradevole e sano per i miei due figli. La gentilissima signora del negozio di alimentari sotto casa nel piccolo paese del profondo nord, un giorno mi suggerì di cuocere le bistecchine di vitello che avevo appena acquistato per i miei bimbi anziché nell’olio nel burro. “Vedrà come verranno buone…“ - minacciò. Caddi ingenuamente nella volgare trappola nella quale un fiorentino solitamente non casca mai: provai. Il pezzo di burro nella padella che via via si scaldava, cominciava subdolamente e in assoluto silenzio a sciogliersi scivolando sulla superficie e lasciando una patina chiara dall’inquietante aspetto. Ormai conscio del grave errore nel quale ero incappato - e del quale chiedo ancora scusa a tutta la mia famiglia, ai miei avi e a tutta la Città di Firenze - ma ormai immerso in questo devastante esperimento culinario, appoggiai le due bistecchine sul fondo della padella con la stessa delicatezza e la stessa paura di un artificiere al disinnesco di un ordigno. Non successe nulla. Non un rumore, non un segno di vita. La patina chiara iniziale lasciò il posto a delle bolle simili a quelle che fa il detersivo quando si lavano i piatti e a una schiuma analoga a quella delle onde del mare in una giornata di libeccio. Tutto nell’assoluto e più tragico silenzio. L’unico segno tangibile che rimase a testimoniare il fatto che qualcuno forse aveva cucinato qualcosa, fu un odore dolce come il marzapane e che rimase tenacemente aggrappato anche ai cappotti che erano nell’altra stanza e che soltanto due giorni dopo riuscii a debellare lasciandoli un’oretta all’aria aperta.

Ai miei bambini, che mangiarono ingenuamente ciò che gli avevo preparato, non confessai mai la verità: è un segreto che avevo giurato a me stesso di portare nell’aldilà ma che adesso desidero condividere. Era un macigno troppo grande ed essermene liberato mi fa stare molto meglio. Se mai leggerete queste righe perdonatemi cuccioli miei. Vuoi mettere, invece, quando butti la braciola in una padella in un filo d’olio rigorosamente extra-vergine appena scaldato? E’ un trionfo di schizzi, di rumore, di rapidità nella gestione nella cottura delle due parti. La braciola ti parla. Ti dice: svelto! Girami altrimenti mi annerisco!

Nel burro invece puoi lasciarla tranquillamente minuti interi. Non cambierà comunque mai il suo pallido aspetto da mucca malata e nemmeno il suo sapore grasso come la ragazza della festa e falso ed untuoso come le sue finte amiche. L’olio è una filosofia di vita: è lo spirito fiorentino che non asseconda le bugie, che non accetta compromessi e che, man mano che passa il tempo, come l’olio, diventa sempre più trasparente. Il doversi continuamente difendere attaccando, è faticoso ma decisamente divertente. Noi fiorentini lontani siamo come in un fortino che viene attaccato da tutti: pellerossa, nordisti e sudisti, tedeschi, mori…Che sia il cibo, che sia la lingua, che sia lo spirito dissacrante che ci porta a fare sempre l’ultima battuta un paio di toni sopra le righe - ma proprio perché è leggermente sopra le righe, risulta comunque sempre l’ultima e questo ci soddisfa - qui è una continua battaglia per la sopravvivenza. Ci rilassiamo soltanto quando, finalmente, abbiamo la possibilità di tornare a casa nostra, quella vera. La perenne agitazione che ci pervade si acquieta soltanto durante i giorni del ritorno. Forse perché si tratta effettivamente dei momenti nei quali l’emozione è davvero forte. Da lontano il legame alla città si rinsalda e, sempre allo scopo di difenderci da denigrazioni o sottovalutazioni della nostra cultura, siamo più incentivati a studiare la nostra città da un punto di vista storico ed artistico. Non ho mai comprato e letto così tanti libri su Firenze, sui suoi tesori artistici e sulle sue tradizioni da quando sono forzatamente lontano: anche questo è un meccanismo della difesa fiorentina esportata fuori dalle mura. Il poter sciorinare con competenza luoghi, opere d’arte, monumenti e musei ci fornisce quella corazza che ci difende dagli assedi e ci fa sentire tranquilli anche nelle sortite di attacco. Una volta nuovamente in città, purtroppo sempre più raramente e sempre più di corsa, siamo portati a cercare conferma dei nostri studi e dei nostri approfondimenti: andiamo sempre volentieri a rivisitare musei o luoghi sacri e ci soffermiamo con attenzione ad osservare estasiati anche soltanto quella piazza che migliaia di volte abbiamo attraversato velocemente senza renderci conto che è ricca di pezzi da museo e trasuda storia da ogni affaccio di ogni edificio. Dopo gli studi e gli approfondimenti in loco, siamo sempre ansiosi di poter ribaltare il baule della nostra storia cittadina, del quale ci siamo appropriati, ai nostri interlocutori. Cerchiamo in tutti i modi di far confluire un qualsiasi tipo di discorso verso l’argomento che desideriamo affrontare - che so io: il Perseo di Cellini - e se proprio non ci riusciamo fa niente: prendiamo di petto la situazione e ne cominciamo a parlare egualmente. Che diamine! E’ cultura, ascoltami no?

Ecco: il fiorentino è così. Se lontano dalla sua città, quelle caratteristiche - che noi valutiamo pregi - ossia la sincerità, la capacità di dissacrare e l’orgoglio della nostra identità culturale e della nostra scuola di football, si accresce insieme alla nostra nostalgia per le nostre antiche mura.

A tutti i fortunati fiorentini che abitano nella loro città mi sento di poter dire di stare sereni e tranquilli: ci pensiamo noi a divulgare la nostra identità.  
                      
Massimo Cecchi
Revisore e Delegato di Milano dei Fiorentini nel Mondo

 

 

corri la vita logo

tnm

 

img-esteri

 

logo comune firenze