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Il Palio dei Navicelli di Firenze, tradizione in acqua d'Arno
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Il Palio dei Navicelli di Firenze, tradizione in acqua d'Arno

barchini palio navicelliLa chiesa che si incontra a metà di borgo San Jacopo a Firenze si rese nota nei secoli anche perché il suo priore, nella ricorrenza della festività di Sant’Jacopo, così com’era detto in Firenze l’apostolo San Giacomo Maggiore, organizzava a sue spese il Palio dei Navicelli in Arno. In quella sera, fino dal lontano 1250, barcaioli e renaioli fiorentini disputavano a furia di vigorosi colpi di stanga la tipica «regata» cittadina, sullo specchio d’acqua fra ponte Vecchio e la pescaia di Santa Rosa, per il divertimento di una grande folla assiepata sui ponti, sulle spallette e sui greti dell’Arno.


I veri protagonisti della serata quindi, come si può ben intendere, erano coloro che vivevano e faticavano tutto l’anno nelle acque del fiume come i pescatori con le loro reti quadrate a bilancia o rotonde a «giacchio», i traghettatori che con le massicce «navi» trasportavano da una riva all’altra persone, animali e cose per un misero pedaggio e soprattutto i renaioli. In anni a noi non molto lontani, bastava affacciarsi alle spallette dei lungarni per vedere questi infaticabili renaioli all’azione: in mezzo al fiume, estate e inverno, dalla mattina alla sera, con l’immancabile cappello sbertucciato in testa calato sugli occhi, in piedi sul «varganello» del proprio barcone di legno di quercia dal vistoso timone bianco e rosso azionato con una lunga barra piegata verso il basso detta «giaccio», nel duro lavoro dell’estrazione a mezzo di quel cucchiaio chiamato nel loro gergo «bazza».

Questo particolare attrezzo consisteva in una pala di ferro, innestata ad una lunga asta di legno, tramite la quale veniva prelevata la rena dal fondo del fiume ed ammucchiata sulla capiente imbarcazione. Poche le soste, dovute per consumare i frugali pasti e per trasbordare il carico; in sintesi si può dire che questi renaioli vivevano sul fiume e col fiume. Difatti, incuranti del buono o cattivo tempo, sotto lo sferzare del sole o del freddo pungente, continuamente esposti all’umidità, dall’alba al tramonto con la sola forza delle braccia, questi tipici cavatori d’Arno tiravano su quintali e quintali di rena gocciolante; tornavano a riva soltanto quando il barcone era talmente carico che i bordi rasentavano il pelo dell’acqua. La partenza dei navicelli per il palio di San Jacopo avveniva dal greto su cui ancora aggetta, sui caratteristici sporti, l’abside dell’omonima chiesa che i fiorentini indicano affettuosamente come la «chiesa col culo in Arno» perché, nei momenti di piena quando il livello del fiume aumenta, le acque vanno con impeto a bagnare la sua parte tergale.

Il lento ed applaudito spostamento dei navicelli verso la mèta costituiva anche l’opportunità di fare delle scommesse fra gli spettatori i quali, fragorosamente incitavano i loro beniamini all’azione. I barcaioli dal canto loro, in piedi sul fondo dei propri barchetti di legno di quercia, con scultoree pose tese nello sforzo con cui imprimevano i colpi di stanga, cercavano di superarsi vicendevolmente anche perché, oltre al palio, veniva offerto al vincitore una damigiana di vino ed un prosciutto. Sull’Arno pertanto almeno una volta all’anno si faticava per divertimento, nella pacata correntina frusciante definita dal D’Annunzio fluviale melodia che fa si dolce il suo riposo.

Ogni 25 luglio, festività di San Giacomo Maggiore, protettore dell'Arte Maggiore del Vajo e dei Pellicciai, il priore di San Jacopo, con questo caratteristico palio disputato coi navicelli senza timone, commemorava il santo al quale era dedicata la chiesa, le cui membra, dopo la decapitazione avvenuta in Giudea nel 42 per ordine di Erode Agrippa, furono amorevolmente raccolte dai suoi discepoli che s’imbarcarono nottetempo su un «navicello privo di vela e timone» e miracolosamente raggiunsero la Galizia, nella Spagna settentrionale, dove diedero onorata sepoltura al corpo ed alla testa del santo, primo apostolo a testimoniare nel sangue la sua fedeltà a Cristo.

 

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Autore


Luciano Artusi

 

 

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